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I trombini
NOTIZIE, CURIOSITA' E PERSONAGGI DELLA ZONA

La strada che da Selva va a Campofontana è stata costruita nei primi anni del ‘900, mentre la strada militare di Campofontana con le trincee e le fortificazioni risale all’inizio della prima guerra mondiale. Le località Campofontana, San Bortolo, Selva e Giazza hanno sempre avuto, in passato stretti rapporti, anche se caratterizzati da un marcato campanilismo.

Gli abitanti di Selva erano chiamati dalla gente delle comunità limitrofe “i Derlari” (costruttori di gerle). I vicini di Sant’Andrea erano i “Batari” perché esperti nella battitura delle castagne e delle noci. Quelli di Badia erano noti come “Sbondareossi” o “Pelagadoi” perché spellavano e sbucciavano le radici del giaggiolo. Quelli di Campofontana “i Vacari” o “i Rondoni” (Perditempo), quelli di Giazza “i Carbonari o i Cimbri”, quelli di San Bortolo “i Sapamarogne” (costruttori di muretti a secco) o “Bestemadori e Barufanti”.

Nella chiesa di selva di Progno dedicata a Santa Maria Assunta si trova in sagrestia un bell’ altare di legno dl 1640 con dei medaglioni dipinti da Paolo Caliari. La corte del seicento di fronte alla canonica ha un bell’arco d’ingresso e sulla soglia c’è un cippo stradale con una scritta curiosa: “ARTS ZAIG” e “STRA BADI”. Leggendo ARTS ZAIG da sinistra verso destra indicava la strada per Giazza; STRA BADI quella per Badia.

Padre Ignazio Beschin – breve biografia

Nel mezzo della Contrada “Potacci”, lungo la prima tappa del Cammino, non vi sfuggirà la stele dedicata a Padre Ignazio Beschin.

Nacque lì, da una famiglia di contadini il 26 agosto 1880. In casa c’erano già otto fratelli e altri due arriveranno in seguito. Trascorre un’ infanzia tranquilla anche se, a fine ‘800, un’ epidemia di tifo si porta via la sorella Maria a cui era molto affezionato.

Era fra i più vivaci e scaltri dei suoi compagni e campione assoluto nei tiri al bersaglio con la fionda, tanto che era soprannominato “ el mira”.

Il parroco di Castello, notata la sua vivacità intellettiva, volle inviarlo nel seminario diocesano, ma lui preferì il collegio dei frati francescani di Chiampo, dove entrò a 13 anni. Divenne novizio e scelse il nome di Ignazio.

Fu ordinato sacerdote il 10 agosto 1903 e ottenne la laurea in Teologia Morale e il dottorato in Diritto Canonico. Allo scoppio della prima guerra mondiale dovette entrare nell’esercito e svolse le mansioni più umili. Nei ritagli di tempo era di aiuto ai parroci dei luoghi dove era di stanza ed ai compagni militari, soprattutto nella corrispondenza con le famiglie.

Dopo il congedo venne chiamato a Roma con l’incarico di postulatore delle cause dei santi e come docente all’Antonianum.

Fu superiore provinciale del Veneto per due mandati, dal 1937 al 1944. A Roma rientrò in seguito come preside e docente all’Antonianum.

Morì il 29 ottobre 1952 a Chiampo; fu sepolto dapprima nel cimitero di Chiampo ed in seguito nella chiesa di Santa Maria della Pieve, dove i suoi resti sono tuttora venerati.

Padre Ignazio Beschin è stato dichiarato Venerabile il 20 gennaio 2017 con l’autorizzazione di papa Francesco. Della sua abitazione in contrada Potacci non rimane pressoché nulla, tutto è crollato. E’ ricordato da una piccola stele con la sua foto e la sua epigrafe, mentre, qualche metro accanto, è stato posto un busto marmoreo.

Cirillo Tonin “poeta contadin”

Nasce nel 1911 in contrada Tonini ad un centinaio di metri dal passo Rocolo, alle pendici del Monte Madarosa. Da piccolo è magro, ossuto e un po’ “brutarelo”. La sua non è una famiglia ricca, ma, pur senza agi, vive una dignitosa povertà. Rimane orfano a 22 anni, età in cui di fatto è il nuovo capofamiglia. Sposa Maria Dirupo a 26 anni dalla quale non avrà figli. E’ chiamato in guerra, ma ben presto è congedato essendo orfano ed unico sostentamento della famiglia. E’ simpatizzante e a volte collaboratore con le forze partigiane ed antifasciste che spesso prende di mira nei suoi versi.

Nel dopoguerra è segretario della Democrazia Cristiana di Castello e punto di riferimento nella nuova locale Associazioni della Coldiretti. Per questi meriti riceve nel 1966 l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. La sua risposta in versi all’onorificenza ricevuta:
“Non sarà che questa insegna
più ambizioso mi farà,
ma a far meglio più m’impegna
davanti a Dio e la Società”.

E’ molto attento all’ambiente che lo circonda e nelle sue poesie parla con commozione dei campi, delle vigne, dei fiori, violette e rose. Non di elevata preparazione culturale, dovuta in parte all’ambiente di provenienza, è un poeta autodidatta, dalla rima facile e dal vivacissimo ingegno.

Compone poesie in varie occasioni di festa, spesso fa ridere i presenti, ma ci sono anche riflessioni sentite e profonde sulla famiglia, sull’amicizia che si concretizza anche davanti ad un bicchiere di vino, ma di quello buono.

Si definisce “Poeta Contadin” , è legato alla sua terra, al lavoro dei campi e dal miracolo dei frutti, dell’uva che dà il vino che porta allegria e amicizia. Nella sua raccolta di poesie ci sono temi autobiografici, momenti di feste e commemorazioni, parla del mondo contadino a cui partecipa in prima persona come sostenitore delle forme associative nate in vallata.

Si esalta di fronte alle bellezze della natura, è critico di fronte allo sviluppo fuori controllo della nostra società. Non mancano commenti e giudizi su argomenti religiosi e sociali.

Sulla sua epigrafe volle solo questo:
Cirillo Tonin
misero e povero contadin
Visse fra gioie e pene
Lottò fra il male e il bene ringraziando Dio
che lo ha creato chiedendo perdon d'ogni peccato.
Morì chiedendo a Dio
Padre buono e misericordioso
per l'anima sua
luce, pace e riposo.
S. Giovanni Ilarione (VI) 19/10/1909.
S. Giovanni Ilarione (VR) 15/7/1987.

Notizie tratte dal libro “Cirillo Tonin Poeta contadin” Di Dario Bruni e Mario Gecchele

Il Prete da Sprea

Don Luigi Zocca, meglio noto come il “Prete da Sprea”, era originario di Bussolengo dove nacque il 25 marzo del 1877. Fin da molto piccolo per lui erbe, fiori, radici avevano un fascino particolare.

Entrò in seminario negli anni in cui era vescovo mons. Bartolomeo Bacilieri e diventato sacerdote fu parroco a Ferrara Monte Baldo. Non poteva aspettarsi di meglio, trovandosi a svolgere il suo ministero alle pendici del Monte che aveva attirato l’attenzione e l’interesse dei più famosi botanici al mondo già nei secoli passati, tanto da essere considerato “L’Orto Botanico d’Europa”. Ebbe modo di conoscere molte persone esperte in quel settore e poté così ampliare le sue conoscenze. Fu cappellano militare durante la Grande Guerra e aiutò a curare le ferite dei militari con le sue pozioni ottenute con le erbe medicinali. Nel 1918 fu trasferito a Sprea portandosi appresso un manuale di botanica scritto in francese, ricevuto in dono da un amico prete che aveva la sua stessa passione. Era benvoluto dalla sua gente alla quale dedicava gran parte del suo tempo, ma ne riservava altro per seguire la sua passione: raccogliere erbe, radici, scorze, foglie fiori che essiccava con cura e le riponeva in vasi per una conservazione al sicuro. La sua capacità di cura con le erbe fu ben presto conosciuta e apprezzata. Anche da lontano giungevano a Sprea persone per farsi curare. Gli fece visita anche la Principessa Mafalda di Savoia, la figlia del re Vittorio Emanuele III per avere consigli e cure.

Don Luigi rimase a Sprea fino al 1951 poi si ritirò a Verona dove morì nel 1954. Insegnò ai parrocchiani ad utilizzare la “Farmacia del buon Dio” per superare le malattie, per tonificare il proprio corpo, per vivere meglio. Insegnò a riconoscere le specie vegetali dubbie e velenifere, come e quando raccogliere le erbe buone, come mescolarle e come conservarle.

In più di un’ occasione disse che il periodo di Sprea fu il più felice della sua vita. A Sprea la passione per le piante officinali non è andata perduta con la sua scomparsa. In un attrezzato e competente laboratorio, “l’ Erbecedario” la sua opera sta continuando. E’ situato nella ex-canonica della Chiesa del paese e la tradizione tramandata dal Prete di Sprea, una sintesi di armonia della cultura cimbra e di conoscenza scientifica del mondo botanico, è viva più che mai.

Piero Piazzola

E’ nato a Campofontana nel 1924. Suo padre faceva il falegname e aveva trascorso 10 anni nelle varie vicissitudini belliche, dalla guerra di Libia alla prima Guerra Mondiale. Fu fatto prigioniero sul Monte Cengio e trasferito nel campo di concentramento di Mathausen dal quale tornò malato. Sposò Angela, ma morì quando Piero aveva poco più di un anno.

Con l’aiuto di nonno Domenico, maestro elementare, la madre riesce ad allevare il figlio gestendo in maniera decisa ed impeccabile l’osteria dl paese. Il nonno era molto affezionato al bambino ed ogni tanto gli faceva assaggiare del vino allungato con l’acqua. Cosa che sua madre non gradiva nella maniera più assoluta a tal punto che decise che suo figlio, finite le elementari, sarebbe andato a studiare in collegio a Verona. E’ stata dura per lui, abituato a vivere sempre isolato sui suoi monti adattarsi alla vita del collegio e soprattutto sentiva la mancanza della mamma. In collegio superò i due anni di ginnasio ed il liceo.

Nel 1943 doveva partire per la naja, ma preferì darsi alla macchia. Poco dopo suo malgrado fu costretto ad arruolarsi nell’esercito repubblichino e qualche volte tornava a Campofontana a Piedi. Poco dopo abbandona l’ uniforme e viene arruolato nella formazione partigiana “Pasubio” di Morozin e successivamente, col nome “Fulmine”, nella Brigata “Stella” della Divisione “Garemi” che operava nella zona. Rimase coi partigiani fino al 29 aprile del 1945 e poi tornò a casa, si fidanzò con Rosa che aveva conosciuto a Genova fece per due volte il concorso magistrale e nel 1950 divenne maestro, proprio come suo nonno Domenico. Non fu difficile accettare la sede di Campofontana che tutti rifiutavano a causa della lontananza.

Nel 1952 sposò Rosa dalla quale ebbe quattro figlie e un maschio. Insegnò ai bambini del paese in cui mancava tutto, e riuscì a fornire la scuola di attrezzature all’avanguardia, come un forno per la cottura della ceramica e un armonium per insegnare la musica e accompagnare le canzoni. Esisteva la mensa scolastica, la cuoca cucinava gratis e si portava a casa quello che avanzava. Lui faceva tutto il resto, apriva e chiudeva la scuola, accendeva le stufa quando era freddo e, se era necessario aiutava a liberare la strada dalla neve. Nel 1970 si trasferì a Lavagno e nel 1979 terminò la sua carriera a Madonna di Campagna. Non è stato solo un valido maestro, molte risorse le ha spese al servizio pubblico, è stato consigliere comunale a Selva di Progno, vicesindaco a Lavagno.

Nel 1970 aveva costituito la Pro Loco di Campofontana, è stato segretario del consorzio delle Pro Loco”Verona Est” e fu segretario provinciale delle Pro Loco del Veronese fino al 1995. E’stato corrispondente del giornale “L’Arena” dal 1954 al 1980. Numerose le sue pubblicazioni di poesie in lingua popolare e di libri che raccontano il suo territorio.Nel 1994 diede vita, assieme a Mario Pigozzi, al Film Festival della Lessinia. Nel 1995 è stato presidente del “Curatorium Cimbricum Veronese”. Morì nell’ottobre del 2008 a San martino Buon Albergo.

Gianni Faè

E' nato a Sant’Andrea di Badia Calavena nel 1921. Compiuti gli studi classici si diplomò a Roma nel 1940. Non finì l’università per lo scoppio della seconda Guerra mondiale durante la quale combatté sul fronte Jugoslavo. Qui, fatto prigioniero venne spedito in Germania.

Rientrato, dopo l’esperienza bellica, fu maestro elementare della piccola scuola del suo paese che chiamò “Piccola Europa”. Usò un metodo didattico innovativo che si basava sull’uso di matrici linoleografiche incise a mano, capaci di imprimere disegni di macchine agricole, componimenti e poesie. Incontrò la particolare simpatia dell’imprenditore poeta Leonardo Sinisgalli di Montemurro (PZ), che gli fece dono di un torchio e di una scatola di caratteri mobili per agevolare la stampa. Salvatore Quasimodo (Premio Nobel per la letteratura nel 1958) venne a fargli visita a Sant’Andrea, per ringraziarlo e dimostrargli il suo apprezzamento.

Biagio Russo, Direttore della Fondazione Leonardo Sinisgalli ha scritto recentemente un libro sull’emozionante esperienza didattica di Gianni Faè: “ Leonardo Sinisgalli e i bambini incisori” (Fls, Montemurro 2018). Ha collaborato alla stesura del testo Clementina Presa, sua ex allieva e testimone di quell’incredibile esperienza.

I TROMBINI DI SAN BORTOLO

Tra i tredici comuni che costituivano la “Montagna alta del carbon”alla fine del secolo XIV venne a far parte anche San Bartolomeo Todesco (o Teutonico), chiamato così per la parlata cimbra della sua popolazione i cui antenati provenivano dalla Baviera. I trombini, chiamati anche s-ciopi o pistoni, derivano da armi a scoppio usate nei secoli XVII-XVIII per difendere il crinale che dal Passo Pertica portava alla Lessinia.

Dal Marzo 1821 ci fu un radicale cambio d’uso, questi archibugi dagli spari terrificanti, divennero i festosi compagni nelle feste del folklore locale. Il nome trombino deriva probabilmente dalla parte finale della canna, a forma di tromba o di campana, per facilitarne l’ avancarica. Oggi a San Bortolo esiste un Associazione con una numerosa schiera di adepti, tutti con la loro storica divisa giallo-verde, invitata in moltissime occasione ad allietare a suon di spari più forti dei tuoni, le feste di paese nei comuni vicini, lontani e anche all’ estero.

Solo esperti artigiani della zona sanno costruire un trombino. Anzitutto si deve scegliere un legno pregiato (acero, frassino, faggio o carpino) che serve per la costruzione del calcio dell’enorme fucile e deve essere di un pezzo unico. Dopo una stagionatura per evitare future deformazioni, si dà impronta alla sagoma richiesta, lo si leviga, si intagliano gli incastri dove sistemare la maniglia, la canna, le fasce di ancoraggio, il grilletto. Diverse decorazioni eseguite a mano in rilievo o in sbalzo su lamina in ottone faranno dell’opera un pezzo unico. Sul calcio del trombino può comparire il nome del proprietario o qualche frase che lo contraddistingue.

La carica avviene con polvere nera immessa nella canna dalla strombatura anteriore e pressata con un’apposita asta a martello, di legno. Sul cane del fucile viene posta la capsula d’innesco. Quando è ora di sparare, il pistoniere imbraccia il trombino con la canna rivolta a terra e ammortizza l’enorme rinculo compiendo una rotazione su se stesso. Il frastuono è assordante e fa tremare le vetrate dei dintorni e offende terribilmente i timpani dei turisti inesperti che non se li sono preventivamente tappati. Lo spettacolo contunua per oltre un’ora… la quiete ritorna solo quando il tempesta cimbra finisce.

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